L’Agenzia delle Entrate con la risposta 20 maggio 2022, n. 285 ha fornito chiarimenti sul trattamento fiscale applicabile, ai fini Irpef e IVA, al reddito di lavoro autonomo prodotto da un soggetto residente nei Paesi Bassi per un’attività di consulenza resa ad un Ministero Italiano.
Nel caso di specie, all’Agenzia delle Entrate è stato chiesto se, sul compenso spettante al consulente non residente per il contratto individuale di collaborazione, si debba applicare la ritenuta alla fonte di cui all’art. 25, co. 2, D.P.R. n. 600/1973, e se, quindi, il medesimo compenso rientri tra quelli di lavoro autonomo in ragione del collegamento tra l’attività di consulenza prestata dal professionista e l’oggetto della professione svolta dallo stesso.
Va premesso che in base all’ordinamento tributario domestico, il criterio di collegamento ai fini dell’attrazione dei compensi nella potestà impositiva dello Stato è costituito dal luogo ove è svolta la prestazione lavorativa; di fatto, sono imponibili in Italia i soli compensi corrisposti ai lavoratori autonomi non residenti, per l’attività lavorativa svolta in Italia.
La normativa domestica deve, tuttavia, essere coordinata con le disposizioni internazionali contenute nella Convenzione per evitare le doppie imposizioni stipulata tra Italia e Paesi Bassi.
In particolare, nel caso in esame, occorre fare riferimento all’art. 14, co. 1, della Convenzione in base al quale “I redditi che un residente di uno degli Stati ritrae dall’esercizio di una libera professione o da altre attività di carattere indipendente sono imponibili soltanto in questo Stato, a meno che detto residente non disponga abitualmente nell’altro Stato di una base fissa per l’esercizio delle sue attività. Se egli dispone di tale base, i redditi sono imponibili nell’altro Stato ma solamente nella misura in cui sono imputabili a detta base fissa”.
La norma convenzionale stabilisce, in sostanza, che i compensi derivanti dall’attività professionale sono imponibili solo nello Stato di residenza del professionista, a meno che detto professionista non disponga abitualmente di una base fissa per l’esercizio della sua attività nello Stato contraente da cui provengono i compensi. In tal caso, i redditi sono imponibili anche nello Stato contraente, ma solamente nella misura in cui sono imputabili a detta base fissa.
Il dubbio interpretativo dell’ Istante riguarda proprio la verifica della disponibilità, da parte del professionista, di una base fissa in Italia per l’esercizio dell’attività professionale.
Al riguardo, si ricorda che, sebbene le Convenzioni per evitare le doppie imposizioni stipulate dal nostro Paese facciano riferimento, per le professioni indipendenti, all’espressione “base fissa”, non ne delimitano precisamente i contorni.
Secondo la dottrina e la giurisprudenza, la nozione in parola è da ricavare facendo ricorso ai criteri ermeneutici propri dell’interpretazione dei trattati.
Sulla base di quanto emerge nel Commentario del Modello OCSE all’articolo 5, paragrafo 2, il concetto di “base fissa” deve essere assimilato al concetto di “stabile organizzazione”, ossia una sede fissa di affari in cui il professionista esercita in tutto o in parte la sua attività indipendente.
Secondo la giurisprudenza, la base fissa può essere equiparata alla nozione di stabile organizzazione i cui elementi costitutivi sono quello materiale ed oggettivo della “sede fissa di affari” e quello dinamico dell’esercizio in tutto o in parte della sua attività. Può essere costituita anche da un locale o da una stanza di proprietà di altri soggetti che, tuttavia, deve essere a disposizione del lavoratore autonomo e nel quale questo esercita la sua attività o parte della stessa.
Un tipico esempio è quello di un pittore che, per due anni, trascorre tre giorni a settimana nel grande edificio del suo principale cliente. In tal caso, la presenza del pittore in quell’edificio dove svolge le funzioni più importanti della sua attività (cioè la pittura) costituisce una stabile organizzazione del pittore.
Ciò posto, stabilire se il professionista in esame abbia a disposizione un luogo che possa considerarsi una “base fissa” in Italia, quale ad esempio, la struttura logistica messa a disposizione dal Ministero, dipenderà dal potere effettivo del Consulente non residente di utilizzare tale ubicazione per svolgere la sua attività professionale, nonché dalla portata della presenza del professionista in quel luogo e delle concrete attività che vi svolgerà.
Pertanto, nella ipotesi in cui il Consulente utilizzi le strutture logistiche presenti presso gli Uffici di diretta collaborazione del Ministro integrando nei termini sopra descritti i requisiti della sussistenza di una “sede fissa” di affari in Italia, è possibile applicare sui compensi erogati la ritenuta a titolo d’imposta nella misura del 30%.
Ai fini dell’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto, occorre valutare la sussistenza dei presupposti soggettivo, oggettivo e territoriale recati dall’art. 1 del decreto Iva, ai sensi del quale “L’imposta sul valore aggiunto si applica sulle cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese o nell’esercizio di arti e professioni”.
Nel caso di specie, in cui il Ministero non risulta titolare di partita Iva, non risultano integrate le condizioni per considerare la prestazione di servizi territorialmente rilevante in Italia.
Il prestatore di servizi estero dovrà quindi emettere fattura con l’addebito dell’Iva secondo le regole vigenti nello Stato estero.
L’Agenzia delle Entrate con la risposta 20 maggio 2022, n. 285 ha fornito chiarimenti sul trattamento fiscale applicabile, ai fini Irpef e IVA, al reddito di lavoro autonomo prodotto da un soggetto residente nei Paesi Bassi per un'attività di consulenza resa ad un Ministero Italiano.
Nel caso di specie, all'Agenzia delle Entrate è stato chiesto se, sul compenso spettante al consulente non residente per il contratto individuale di collaborazione, si debba applicare la ritenuta alla fonte di cui all'art. 25, co. 2, D.P.R. n. 600/1973, e se, quindi, il medesimo compenso rientri tra quelli di lavoro autonomo in ragione del collegamento tra l'attività di consulenza prestata dal professionista e l'oggetto della professione svolta dallo stesso.
Va premesso che in base all'ordinamento tributario domestico, il criterio di collegamento ai fini dell'attrazione dei compensi nella potestà impositiva dello Stato è costituito dal luogo ove è svolta la prestazione lavorativa; di fatto, sono imponibili in Italia i soli compensi corrisposti ai lavoratori autonomi non residenti, per l'attività lavorativa svolta in Italia.
La normativa domestica deve, tuttavia, essere coordinata con le disposizioni internazionali contenute nella Convenzione per evitare le doppie imposizioni stipulata tra Italia e Paesi Bassi.
In particolare, nel caso in esame, occorre fare riferimento all'art. 14, co. 1, della Convenzione in base al quale "I redditi che un residente di uno degli Stati ritrae dall'esercizio di una libera professione o da altre attività di carattere indipendente sono imponibili soltanto in questo Stato, a meno che detto residente non disponga abitualmente nell'altro Stato di una base fissa per l'esercizio delle sue attività. Se egli dispone di tale base, i redditi sono imponibili nell'altro Stato ma solamente nella misura in cui sono imputabili a detta base fissa".
La norma convenzionale stabilisce, in sostanza, che i compensi derivanti dall'attività professionale sono imponibili solo nello Stato di residenza del professionista, a meno che detto professionista non disponga abitualmente di una base fissa per l'esercizio della sua attività nello Stato contraente da cui provengono i compensi. In tal caso, i redditi sono imponibili anche nello Stato contraente, ma solamente nella misura in cui sono imputabili a detta base fissa.
Il dubbio interpretativo dell' Istante riguarda proprio la verifica della disponibilità, da parte del professionista, di una base fissa in Italia per l'esercizio dell'attività professionale.
Al riguardo, si ricorda che, sebbene le Convenzioni per evitare le doppie imposizioni stipulate dal nostro Paese facciano riferimento, per le professioni indipendenti, all'espressione "base fissa", non ne delimitano precisamente i contorni.
Secondo la dottrina e la giurisprudenza, la nozione in parola è da ricavare facendo ricorso ai criteri ermeneutici propri dell'interpretazione dei trattati.
Sulla base di quanto emerge nel Commentario del Modello OCSE all'articolo 5, paragrafo 2, il concetto di "base fissa" deve essere assimilato al concetto di "stabile organizzazione", ossia una sede fissa di affari in cui il professionista esercita in tutto o in parte la sua attività indipendente.
Secondo la giurisprudenza, la base fissa può essere equiparata alla nozione di stabile organizzazione i cui elementi costitutivi sono quello materiale ed oggettivo della "sede fissa di affari" e quello dinamico dell'esercizio in tutto o in parte della sua attività. Può essere costituita anche da un locale o da una stanza di proprietà di altri soggetti che, tuttavia, deve essere a disposizione del lavoratore autonomo e nel quale questo esercita la sua attività o parte della stessa.
Un tipico esempio è quello di un pittore che, per due anni, trascorre tre giorni a settimana nel grande edificio del suo principale cliente. In tal caso, la presenza del pittore in quell'edificio dove svolge le funzioni più importanti della sua attività (cioè la pittura) costituisce una stabile organizzazione del pittore.
Ciò posto, stabilire se il professionista in esame abbia a disposizione un luogo che possa considerarsi una "base fissa" in Italia, quale ad esempio, la struttura logistica messa a disposizione dal Ministero, dipenderà dal potere effettivo del Consulente non residente di utilizzare tale ubicazione per svolgere la sua attività professionale, nonché dalla portata della presenza del professionista in quel luogo e delle concrete attività che vi svolgerà.
Pertanto, nella ipotesi in cui il Consulente utilizzi le strutture logistiche presenti presso gli Uffici di diretta collaborazione del Ministro integrando nei termini sopra descritti i requisiti della sussistenza di una "sede fissa" di affari in Italia, è possibile applicare sui compensi erogati la ritenuta a titolo d'imposta nella misura del 30%.
Ai fini dell'applicazione dell'imposta sul valore aggiunto, occorre valutare la sussistenza dei presupposti soggettivo, oggettivo e territoriale recati dall'art. 1 del decreto Iva, ai sensi del quale "L'imposta sul valore aggiunto si applica sulle cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell'esercizio di imprese o nell'esercizio di arti e professioni".
Nel caso di specie, in cui il Ministero non risulta titolare di partita Iva, non risultano integrate le condizioni per considerare la prestazione di servizi territorialmente rilevante in Italia.
Il prestatore di servizi estero dovrà quindi emettere fattura con l'addebito dell'Iva secondo le regole vigenti nello Stato estero.